Depersonalizzazione: l’angosciante esperienza di irrealtà

panico

Il termine depersonalizzazione si riferisce all’esperienza di irrealtà del sé: l’individuo si sente distaccato dal proprio corpo o dai propri processi mentali, o si sente come in un sogno. Si associa di frequente a derealizzazione, in cui l’esperienza di irrealtà è riferita all’ambiente esterno: una alterazione della percezione o dell’esperienza del mondo esterno tale per cui esso appare strano o irreale, e le persone possono apparire meccaniche o non familiari.

Le prime descrizioni dei due fenomeni associati furono fatte alla fine dell’800 dall’otorinolaringoiatra francese Krishaber che la definì “neuropatia cerebro-cardiaca”. Il termine depersonalizzazione viene coniato pochi anni dopo da H Amiel, uno scrittore e filosofo svizzero, che ne soffriva. Nel 1935 Maphoter e Mayer-Gross definirono la distinzione tra derealizzazione e depersonalizzazione, anche se nelle prime edizioni del DSM il termine depersonalizzazione continuò ad includere anche la derealizzazione; solo nell’ultima edizione, la V, i due termini sono separati e il disturbo è denominato da depersonalizzazione/derealizzazione: in realtà la questione della distinzione sembra essere solo classificativa, in quanto dal punto di vista clinico i pazienti con l’una o l’altra o entrambi non differiscono.

La causa esatta della sindrome è sconosciuta, tanto che il DSM V suggerisce solo criteri di esclusione da condizioni che possono includere sintomi da depersonalizzazione/derealizzazione: uso di sostanze (depersonalizzazione postmarijhuana e psicotomimetici) o e medicamenti, e altre condizioni mediche (epilessia del lobo temporale) o psichiatriche (DPTS, ansia, depressione, ossessioni).

Effettivamente, sintomi simili alla depersonalizzazione si riscontrano nell’epilessia del lobo temporale, come ad esempio anomalie percettive in cui il soggetto percepisce diversamente gli stimoli sensoriali o stati sognanti epilettici. Sulla base di queste osservazioni, alcuni Autori hanno proposto che la depersonalizzazione riconosca la sua genesi nella disfunzione del lobo temporale. D’altra parte, è stato evidenziato che alcuni pazienti con attacchi di panico e sintomi da depersonalizzazione, mostrano anomalie EEGgrafiche nel lobo temporale.

Dal punto di vista evoluzionistico, la depersonalizzazione è vista come una risposta cerebrale vestigiale a condizioni minacciose per la vita: un aumentato arousal associato ad una attenuazione delle emozioni rappresenterebbe un meccanismo adattivo innato del cervello che aumenta le possibilità di sopravvivenza in caso di pericolo improvviso.

Sul piano neurobiologico questo corrisponderebbe all’espressione di un meccanismo innato, geneticamente determinato (hard wired), in cui a causa di una disconnessione funzionale tra aree cerebrali sensoriali corticali e e strutture limbiche, vi sarebbe l’alterazione del processo di valutazione emotiva che “colora” cognizioni e percezioni che porterebbe ad un cambiamento qualitativo dell’esperienza, nel senso di una mancanza di vividezza dell’esperienza e sentimenti di irrealtà.

Parallelamente, la “mente vuota” vissuta dai pazienti con depersonalizzazione (una esperienza di assenza di pensieri, memorie, immagini che abbiamo anche quando si è impegnati in un compito attentivo come quello che comporta il prestare attenzione ad uno stimolo infrequente – attenzione vigilante) sarebbe un meccanismo vantaggioso dal punto di vista evoluzionistico: in condizioni di pericolo vengono mantenuti aperti canali sensoriali multipli al fine di ottenere informazioni utili per la sopravvivenza. La disconnessione tra corteccia somatosensoriale e strutture limbiche spiega anche la asimbolia per il dolore (cioè percepire il dolore senza però le risposte emotive e motorie conseguenti alla sensazione) che si manifesta in pazienti con depersonalizzazione, e anche dei comportamenti di automutilazione.

Tale pattern di risposta (inibizione emotiva e allerta vigilante) si sarebbe evoluto per fronteggiare situazioni minacciose per la vita nel quale l’individuo non ha controllo sull’ambiente, e in cui la sorgente del pericolo è sconosciuta o non può essere localizzata. In questo caso, l’inibizione di risposte emotive non funzionali (cioè quelle di fuga o lotta, che tipicamente insorgono in risposta ad una minaccia ambientale) e l’incremento dell’attenzione vigilante, permettono un esame accurato multisensoriale simultaneo di informazioni rilevanti e risultano altamente adattivi.

E tuttavia, quando emerge in situazioni in cui non c’è il pericolo, questo meccanismo provoca un’esperienza soggettiva assai strana: l’improvvisa mancanza di sentimenti ed emozioni, in cui le cose appaiono prive di coloritura emotiva ma dotate di alta definizione sensoriale, con una ridotta consapevolezza del corpo, attenuazione dell’esperienza del dolore, e sensazione di testa vuota.

Da Sierra M & Berrios GE. Depersonalization: Neurobiolobical perspectives. Biol Psychiatry, 1998; 44(898-908)

 

Di Alessandra Benedetti