La pratica di Mindfulness è stata applicata nei bambini nelle varie fasce di età a partire dai primi anni 2000. Naturalmente la ricerca in questo campo è ancora agli inizi, tuttavia si è visto che nei bambini l’addestramento a questa pratica meditativa migliora le capacità metacognitive, esecutive, e di autoregolazione del comportamento (Flook et al, 2010), le capacità di mantenere l’attenzione in bambini con problemi scolastici non certificati, nei quali si verifica anche una riduzione dell’ansia (Sample et al., 2005, 2010). La riduzione dell’ansia è testimoniata da altri lavori (Liher e Diaz, 2010), che hanno riscontrato anche una notevole diminuzione dei sintomi depressivi.
Recentemente Kuyken e coll. (2013) in un largo campione di ragazzi delle scuole medie, hanno trovato che un training di Mindfulness migliora sintomi depressivi, stress e benessere generale e che questo miglioramento viene mantenuto anche dopo 3 mesi dal programma. Altri studi hanno rilevato una maggiore capacità di autoregolazione emotiva e di compassione auto ed eterodiretta, e minore autocritica (Saltzman e Goldin, 2008). Numerosi studi hanno coinvolto ragazzi iscritti all’università, in cui la capacità di mantenere l’attenzione è fondamentale per avere buoni risultati.
Fino dai tempi di William James, uno dei padri della psicologia moderna, l’attenzione viene ritenuta una abilità cruciale non solo per le performance accademiche, ma per uno sviluppo completo dell’individuo: «La facoltà di portare volontariamente indietro un’attenzione errante, più e più volte, è la radice stessa della capacità di giudizio, del carattere e della volontà… Un’educazione in grado di migliorare questa facoltà sarebbe la formazione per eccellenza».
In effetti, l’attenzione ha stretti rapporti con altre funzioni cerebrali: la memoria di lavoro è influenzata dall’attenzione (McVay e Kane, 2009, 2012), mentre i sintomi e i disturbi dell’umore possono essere sia la causa che la conseguenza di un problema di attenzione (Killinngsworth e Gilbert 2010; Brand e coll., 2007). La “mente errante” ha dei correlati neurofisiologici: in meditatori di lungo termine è stato visto che si riduce l’attività del network “default mode”, una rete neurale di regioni cerebrali implicate nella mente errante. Deficit di attenzione sono associati a ridotte performance cognitive (Kam e Handy 2013) e difficoltà accademiche (Smallwood e coll., 2007). I training di mindfulness si sono dimostrati utili nel migliorare i risultati di esercizi di apprendimento e risultati accademici (Morrison e coll, 2014; Ramsburg e Youmans, 2013), l’attenzione e l’umore (Baer, 2009) e la percezione soggettiva di “mente vagante” (Mrazek e coll., 2013).